mercoledì 10 novembre 2010

Illumin/azioni. Aprire l'ombrello

Piove e non ne parliamo del governo... Piove sulle tamerici.
Piove piove sul nostro amore. Piove sempre quando non ho l'ombrello e non piove mai quando mi distraggo e me lo porto in borsa.
Piove sempre sul bagnato.
Il bagnato, nello specifico, è il mio jeans che da cinque giorni percorre avanti e indietro la tratta lavatrice-stendino. Magari lavatrice! Sono cinque giorni che lo lavo a mano (un jeans a mano?)e poi grondante lo stendo fuori alla finestra nei cinque minuti di bel tempo. E lì si avvera il proverbio, lì sì che piove sul bagnato. Sempre. "Cinque minuti" mi dico "e poi lo tiro dentro perchè dopo pioverà". Certo. A tarda notte mi viene in sonno la faccia terrorizzata di Jeans- ormai è una persona- che al freddo e al gelo urla sotto le intemperie! Allora gridando mi alzo di soprassalto e salvo quel disgraziato di Jeans dalle trombe d'aria. Oh no!
Jeans ritorna così nella sua bacinella di fiducia pronto a un ennesimo lavaggio, a un ennesimo stendimento, a un ennesimo diluvio universale e a un ennesimo "oh cazzo no! Jeans, sei proprio tu! Jeans!".
Stamattina Jeans marciva sotto la grandine mentre tramortito lo trascinavo in casa per la trentaduesima volta.
In questo momento, mentre scrivo Jeans mi guarda dall'altra stanza, steso sulla sedia, dopo il lavaggio numero trentatrè. In soli cinque giorni.
Gli ho dato anche due botte di phone per rianimarlo, ma Jeans ormai è sicuro della sua posizione e si dimostra, ora più che mai, attaccato alla poltrona. Stasera stranamente non piove, potrei approfittare di quei famosi cinque minuti di bel tempo, tuttavia Jeans non batte ciglio, lui non si scompone, non si spaventa: sa che, sicuramente, mi sono già dimenticata di lui.

giovedì 14 ottobre 2010

Intercett/azioni. Parlare inglese

Nella nazione di I., per essere del proprio tempo bisogna parlare la lingua di un altrui spazio.
Questo spazio altrui altro non è che una luminosa terra piovosa in cui si prende il thè alle cinque del pomeriggio, in cui i mancini posso finalmente usare con naturalezza il cambio della macchina, in cui sono nati John Lennon, Vivienne Westwood e William Blake. Tutte ottime ragioni per piegarsi a un corso di inglese e uscire dall'emarginazione forzata del monolinguismo e del monopensiero.
In questo tempo e in ogni spazio, non parlare inglese significa infatti essere un duenne in un mondo di adulti logorroici che non vedono l'ora di raccontarti cose e sapere il tuo parere, ma tu hai due anni scarsi e sai dire solo "fame" "cacca" e "pipì" senza nè una madre e nè una lingua che ti vengano in soccorso a dire: "sai, non parla ancora bene.." .
Così vorresti dire tante, tantissime cose, ma sei frustrata perchè ti manca il famigerato vocabolario di base e allora quando ti rivolgono la parola dici solo "cacca" e "pipì" e nelle cene ti butti in silenzio sul buffet.
D'altra parte hai fame e ora anche tristezza e rabbia.
Solo una maestra di nome A. enne enne, una lavagna e i compiti a casa possono salvarti da memorabili gaffes con cui conquisti famiglie di genitori tedeschi di amiche tedesche. Gaffes del tipo: "my boyfriend IS a TRUMPET".
Già, il discreto fascino degli ottoni. Comunque, sempre meglio che trombone.
Solo dizionari di Oxfort e pacchi di esercizi in classe possono salvare il tuo interlocutore e te da una faticosissima conversazione.
Avendo, infatti, dimenticato gran parte del lessico, per indicare un sostantivo parto con una lunghissima perifrasi da tipica definizione della settimana enigmistica. In altre parole, per dire "lavagna" uso: "l'oggetto appeso al muro in una classe su cui tu puoi scrivere le parole".
Sette verticale, dieci lettere: b-l-a-c-k-b-o-a-r-d.
Invece per "asciugamano" dico: "l'oggetto in un bagno con cui puoi asciugare le tue mani". Nove orizzontale, cinque lettere, inizia con la t. : t-o-w-e-l.
L'inglese così, credetemi, è davvero logorante.
In primo luogo perchè nemmeno Bartezzaghi si spreme tanto, secondo perchè il povero malcapitato con cui parli pensa di te che sei vittima di un manierismo linguistico fuori controllo e, per gentilezza nei tuoi confronti, comincia anche lui a parlare così.
Terzo perchè non si arriverà mai e poi mai alla conclusione di un qualsiasi concetto persi entrambi a riempire gli incroci del cruciverba.
Quante lettere? Non si trova. Proviamo piuttosto col 14 verticale.
A questo punto cosa si può fare per non passare tutta la sera a quel buffet ed essere scambiata ripetutamente per il maitre?
O si comincia a versare del vino bianco nei bicchieri o ci si rinchiude in una scuola di madrelingua, si torna ad avere i compagni di classe, i libri di esercizi, le ore di lezione.
Si ricontattano quei tipici pen-friends degli anni novanta (ma che fine hanno fatto? oramai avranno dei figli!), quegli amici di penna (?) immaginari a cui si scrivevano lunghe e accorate lettere piene di inutili particolari sulle proprie giornate, sui corsi di inglese, sulla maestra A. enne enne e sulle settimane enigmistiche.

domenica 3 ottobre 2010

Provoc/azioni. Sfatare il tabù

Ho le mie cose. Ho il ciclo. Sono in quei giorni. Ci metto un palloncino tutto rosso.
Faccio la ruota a un provino. Mi butto da un aereo col paracadute. Sono indisposta e vivo nel 1940 per parlare così.
Donne di tutto il mondo, è arrivato il momento di ribellarsi al tabù della Lines e alle sue improbabili perifrasi. Pronunciamo con lo spelling un sostantivo dignitosissimo:m-e-s-t-r-u-a-z-i-o-n-i.
Ora sì che sono libera e felice come una farfalla.
Cos'è quello spiffero di disagio che soffia ogni volta che viene nominato il termine all'infuori di un bagno pubblico o di un pigiama party di sole donne? Perchè non posso dirlo in presenza di uomini non ginecologi?
Ma dov'è il problema?
Non capisco: non è un termine volgare, non è gerghiale, non è slang. E' la denominazione medico-scientifica di un fenomeno biologico. Ho molta più vergogna a usare tutti quei degradanti giri di parole.
Non è elegante? Ma è un termine bellissimo, tecnico, preciso, semplice e soprattutto autentico.
Le perifrasi sono più intime? Falsissimo: il significante cambia il significato è lo stesso.
Se ho gastrite, sinusite, congiuntivite non cerco metafore barocche o assurde associazioni di pensiero ("ho le cose delle cose mie e un po' pure di quell'altro nell'occhio"/ "sono diversamente disposta"/"lo stomaco mi si infuoca come il Vesuvio nel 79 d.C.e posso nutrirmi solo di calchi pompeiani").
Piuttosto dico gastrite per gastrite, sinusite per sinusite, congiutivite per congiuntivite.
Sulle mestruazioni invece cala il tabù linguistico dato dai terrificanti retaggi dei terrificanti condizionamenti culturali.
E partono incredibili strade alternative per indicarle.
Il ciclo mestruale è biologia, ma finchè le stesse donne continueranno a usare quei nomignoli terribili l'emancipazione femminile non sarà mai compiuta.
Donne, non è colpa vostra, ci hanno abituato così ma ormai sono scaduti i giorni: "date parole al dolore" diceva Shakespeare. "Vi regalo un pacco di assorbenti in cambio" aggiungo io. Anche "assorbenti" non si può dire, ma "tampax" stranamente sì. E' possibile che io risulti di cattivo gusto perchè ho detto "assorbenti"?
Nella città di R., per indicare le mestruazioni (sentite che bel suono!) si dice: ho il marchese.
Gli abitanti della città di R., per nulla schizzinosi, viscerali verso la vita tanto da mangiare interiora e trippe e code alla vaccinara, provano ripugnanza unicamente quando si nomina loro questo tal marchese. Tutti rimangono schifati e ti pregano di chiamarlo diversamente.
Quando ho imparato questa parola ero felicissima e, trovandola molto fantasiosa, la ripetevo a oltranza. Mi riportava al marchese di Carabas del Gatto con gli stivali oppure mi faceva pensare a un personaggio della letteratura..non so.. dopo il Cavaliere inesisente, Il visconte dimezzato e il Barone rampante, Calvino avrebbe potuto scrivere Il Marchese in ritardo. Attesissimo come libro. E invece no. Tutti inorridiscono davanti al signor marchese.
Così ho capito che a una straniera come me Lui può far sorridere, mentre agli abitanti della citta di R. ricorda cicli mestruali della bisnonna e della trisavola, gonne di flanella a fiorellini, calze velate color carne e puzza di naftalina. L'ho capito dalle loro smorfie.
Allora pronuncio il termine per spaventarli o per far loro passare il singhiozzo.
"Mestruazioni" invece non è flanella, è una parola di libertà.
Non ci si può vergognare di pronunciare il nome tecnico di un processo fisiologico della donna peraltro così costitutivo e fondamentale della sua stessa identità. Il ciclo mestruale consente la vita e la continuazione della specie. Ci si può mai vergognare di una cosa simile?
E' un miracolo (ovviamente dipende sempre dalla specie...) e la parola mestruazioni andrebbe scritta su tutti muri. E invece no, ancora si tentenna a pronunciarla.
Ma non è giusto: le remore lasciamole ai momenti in cui ci allontaniamo dalla nostra natura, demoliamo finalmente il tabù intorno a un aspetto basilare dell'essenza femminile.

mercoledì 29 settembre 2010

Incub/azioni. Sognare di tornare a scuola

Aprile è il più crudele dei mesi diceva T.S. Eliot -un grande nome puntato della poesia.
Per mio fratello G. M. invece è Settembre a vincere il premio crudeltà.
Se non esistono più le mezze stagioni e di ventotto ce n'è uno e tutti gli altri ne han trentuno, Eliot T.S. aveva sottovalutato il trauma collettivo che affligge l'umanità a qualsiasi latitudine sul finire dell'estate: il ritorno a scuola.
E non parlo solo del ritorno a scuola in senso stretto. Esiste anche un ritorno a scuola in senso figurato che corrisponde alla ripresa del ritmo lavorativo post-vacanza.
Tornare al lavoro, allora, rievoca l'antico trauma del primo giorno di scuola dopo tre mesi di lunghe mattine a giocare nel cortile e poi di battimuro, e di motorini e poi di batticuori. E lieve libertà e compiti delle vacanze mai fatti.
Non crediate di aver dimenticato quella sensazione da ritorno all'ordine: nel vostro inconscio è sedimentata e i dati istat dimostrano l'impennata nel mese di settembre dei compiti in classe e delle interrogazioni in sogno. Che momenti drammatici. Ma come abbiamo fatto a sopravvivere?
A.M., mia madre, insegnante, va scuola dall'età di quattro anni e mezzo. Lei ci tiene sempre a precisarlo. Quest'anno ha deciso di fare filone il primo giorno di scuola e poi anche il secondo (non fate i delatori perchè è arrivata pure la visita fiscale). Preoccupata ho dovuto chiamarla per dirle di andare a scuola.
Ma come posso darle torto?
Passeggiando per la città di B., mi è capitato di trovarmi sotto una finestra del mio ex liceo al quale rivolgo sempre in automatico un gestaccio morale. Tiè.
Dalla finestra proveniva la tipica voce cadenzata da interrogazione in piedi vicino alla cattredra. Quel ritmo lo riconoscerei tra mille: nananà nananà nananaà/nananà nananà nanananà. Che incubo. Non lo sentivo dall'epoca.
Turbata, nei giorni successivi ho iniziato a sognare compiti in classe su compiti in classe, corridoi su corridoi e quegli attaccapanni in fondo all'aula che non ho mai più rivisto altrove e che non dimenticherò mai.
E lì ho pensato che forse, dico forse, rimetterei piede nel liceo per rivedere da vicino quei favolosi attaccapanni anni novanta. Che attaccapanni!
Previo sempre catartico gestaggio morale.

martedì 14 settembre 2010

improvvis/azioni. Incoraggiare qualcuno a convertirsi all'ebraismo.

Città di M. vicino l'Europa ovvero il paese dei balocchi delle preposizioni semplici.
Qui moto a luogo, stato in- e moto per- vanno tutti in un'unica direzione:
IN Cordusio, IN Centrale, IN Cadorna. Ci vediamo A San Babila corrisponde a una bestemmia: santo subito quel ci vediamo IN San Babila.
Città della moda, location in, M. vicino l'Europa mette IN da tutte le parti. Altrimenti non è glamour.
"Ma è vagamente sgrammaticato" faccio notare dolcemente da Louis Vuitton, tempio haute couture IN Duomo, mentre il mio amico M. appioppa con gran classe una maxibag a due signori cinesi. In In In.
" Mi dica. Ha bisogno?... Isa, i cinesi pagano sempre in contanti, a volte con tanti, tantissimi pezzi da 20. I soldi dei russi vanno contati più e più volte altrimenti ti lasciano 100 euro in più. Gli emiri..." mi bisbiglia mentre fa finta di mostrarmi l'interno di una borsa che fingo di voler comprare.
"E per quanto riguarda i foulard invece?...Sì vabbè -gli faccio- ma tutto questo IN non sarà in esubero come le banconote dei russi?".
"Provi questo colore, le starà d'incanto!...Isa dai, il linguaggio è l'uso che se ne fa. Qui a M. si dice IN ".
Comprendere Wittgenestein da Louis Vuitton non ha prezzo.
Tutta la pelletteria intorno a me eccome.
"Non vuole provare le novità in vernice?..Ti lascio con la mia collega- sibila M.- vuole diventare ebrea. Sei perfetta per lei. Ciao."
Io non sono ebrea anche se ho lavorato del tempo con loro, ma lo facevo nel giorno di shabbat e le vecchiette mi guardavano storto.
Semplicemete non ne parlo male come tanti anzi ne ammiro alcune intelligenze formidabili e mi fa ridere Woody Allen.
La collega in questione è V., cubana, da 10 anni in Italia, da 15 religiosa da quando, nella Cuba in cui si andava in chiesa di nascosto,bambina decise di diventare protestante e portò tutta la famiglia atea comunista-comunista dalla sua parte.
Ora V. sente fortemente la spinta verso l'ebraismo, bussa alla porta del rabbino e viene rifiutata. Ma V. non si arrende, ritorna puntuale, aspetta fuori dalla sinagoga seduta al freddo o in piedi su tacchi Vuitton.
P., l'altra amica, le consiglia di snellire la pratica diventando testimone di Geova, ma V. non scherza: è determinatissima e vuole sapere come fare.
Il mio consiglio è quello di andare tre volte: al terzo rifiuto le sarà accordato sicuramente un appuntamento col rabbi. Sex and the city docet.
Nel frattempo V. ci elenca con gran foga lo studio che ha fatto della thorà e le pratiche così fedeli al testo da far impallidire lo stesso Abramo.
Tuttavia V. è piena di entusiasmo e quindi la incoraggio poichè se esiste l'inferno è fatto proprio per gli spegnitori d'entusiamo (girone dantesco).
E' peccato mortale.
Parliamo lungamente, tuttavia il nostro crescendo è spezzato da G..
G. per tutto il tempo è rimasto in silenzio travolto dal Vecchio Testamento finchè, prima di finire lui stesso costretto a fare testamento, all'ennesima pietanza kosher profetizza un sonoro "perfetto, ma ora dobbiamo andare a bere". E così sia.

domenica 5 settembre 2010

Folgor/azioni. Incontrare Wim Wenders

Qui a V., nel tempo speso a camminnare a perdersi e a tornare indietro, si incontra un po' di tutto, dagli uomini a righe con paglietta in testa ai giovani emo crescono, dalle strane creature con maschera e mantello nero ai piccioni agli ex sindaci con barba nera, dal turista modello basic al popolo delle Biennali con le tipica mise da addetto ai lavori. M chi l'addetto?
Tutti camminano insieme lungo lo stesso vicoletto che qui, però, non si chiama vicoletto, ma viene indicato secondo la personalissima lingua degli autoctoni che consente a parole come "sotoportego" e "cà" di riempire tranquillamente la segnaletica stradale da gioco dell'Oca voluta, e lasciata intatta da quel dì, direttamente dal Mercante di V.
L'uso delle doppie è bandito, pena la messa in un sacco e il lancio in laguna.
In queste stradine che però attenzione non si chiamano stradine, camminano fianco a fianco paesi lontanissimi ed epoche lontanissime con vertiginosi spiazzamenti spazio-temporali cui può seguire improvvisa caduta in laguna senza sacco.
In una sospensione generale si cammina così in un calderone (umidone) con la consapevolezza di poter incontrare Andrea Palladio o Orson Welles, il mio vicino di casa della citta di B. o George Clooney e reagire con la stessa nochalance che si ha nei guazzabugli improbabili dei sogni.
Colonna sonora: che anno è? Che giorno è? Questo è il tempo di vivere con te (il te è riferito a Cacciari ovviamente).
A V. tutto è possibile e così può capitare di imbattersi in un signore alto e coi capelli bianchi e strani occhiali, domandarsi se sia Palladio o il tuo vicino di casa, capire che non è Orson Welles, realizzare che non è proprio un belloccio alla Clooney, meditare allora su una vaga somiglianza tra questo signore e Wim Wenders... Inchiodare i piedi a terra e dire: "Cazzo, quello è Wim Wenders!". Chiudere la bocca rimasta spalancata.
A questo punto è veramente dura: in pochi secondi bisogna essere pronti e decidere se prendere l'arte o metterla da parte.
Mentre ti scorrono davanti tutte le scene dei suoi film, sale il panico. Quasi quasi chiedi l'aiuto da casa ma non hai tempo. Ti giri e inizi a pedinare Wenders tra turisti e sentimenti di soggezione e di attrazione. E una domanda: ma che gli dico?
Bisogna trovare una frase a effetto, la più brillante delle frasi possibili che abbia mai detto e che mai dirò.. fermare Wenders..sai quanta gente lo tampina e tutti gli dicono la stessa cosa..ma mica gli posso dire la cosa che gli dicono tutti...sì lo so che dicono tutti così...oddio mi devo impegnare...ma che gli dico?.."sono un'ammiratrice" è orribile.."ho visto tutti i suoi" film...ma poi sempre sti film...lui cammina e io lo impezzo coi film...è una condanna poveraccio..sai quanti fan..ma lei è Wim Wenders?...
Ah...insomma caro Wim, anche tu qui..no no..in inglese poi mi è più difficile fare le battute..mi prenderà per una deficiente...oh Wim se tu sapessi...no no sono pessima...
Faccio finta che non so chi sia e gli chiedo una sigaretta?..scusi Wenders, che ore sono?...no, ma che dico: Wim Wenders non può avere l'orologio.
Mentre inseguo Wenders con pensieri velocissimi su modalità per il miglior abbordaggio della storia dell'umanità e fantasie in cui già siamo insieme su una gondola a cantare e io faccio la seconda voce lui suona la fisarmonica, mi sveglio dalla trance, guardo la strada che qui non si chiama strada e mi accorgo di non vedere più Wenders.
L'ho perso tra la folla di uomini e donne di epoche e latitudini diverse. Non c'è più. Passa la maschera col mantello, passa il piccione, passa Goldoni, passa il mio vicino di casa, ma di Wenders nessuna traccia.
Sconforto.
Resto sola a guardare il cielo sopra V. e so che certamente tra poco verrà a piovere.

mercoledì 1 settembre 2010

Mobilit/azioni. Camminare

Per arrivare dalla città di B. alla città di V. bisogna prendere un pullman sul quale una volta scesi si giura sempre di non montare mai più, poi un autobus, un trenino, un aereo, un vaporetto di una lentezza imbarazzante a cui si rimedia con un "almeno da qui si vede la città" che però non basta se ti scappa una pipì mostruosa e tutto intorno è acqua a ricordare la crudeltà della tua vescica.
Una volta sbarcati nella città di V. si bacia la terra, si realizza che si sarebbe dovuti scendere alla fermata successiva, ma troppa acqua e troppa gente annoiata che non vedeva l'ora di parlare con te non permettono nemmeno un altro minuto da spendere sul battello ebbro.
"Ma allora perchè non hai preso il treno?" mi domanda il signore accanto a me a cui nel frattempo ho raccontato la mia vita mentre doppiamo il capo di Buona Speranza. Perchè ho architettato questa traversata da tempo per viaggiare in compagnia della mia amica V. la quale, proprio stamattina, mi ha mandato un SMS per dirmi di andare da sola inquanto sempre la mia amica V., nella zona di S., ha trovato la caletta e l'uomo della sua vita. Così sono rimasta a piedi.
E finchè la barca va.
Ad ogni modo, una piadina e un restyling acrobatico nel bagno di un bar ti consentono di lasciarti alle spalle i trasporti e le infrastrutture varie per continuare la traversata senza gli orpelli dei ferrotranvieri e simili.
Nella città di V. tutto si svolge spartanamente a piedi. Abitudine romantica, suggestiva, senza dubbio salutare e distensiva e bla bla bla , tuttavia al terzo giorno tutti questi kilometri puzzano più del pesce, dell'ospite e di certi canali off della stessa città di V. .
Adoro camminare, ma adoro ancor di più le cose fatte per scelta e non per imposizione: devo sapere che sul più bello posso sempre chiamare un taxi. Quanto costa un taxi nella città di V.? In base alle mie indagini socio-antropologiche sui tassinari locali il prezzo minimo è di 40 euro.
E' in questi momenti che vedo il nostro paese come una colonia di russi lussuosi, vips, viaggi di nozze terrificanti, giapponesi coi bustoni Chanel e gente che si sposa a V. secondo il modello matrimonio alla Beautiful. La città di V. è per i promessi sposi (no Renzo e Lucia!) seconda sola a Las Vegas.
Disinteressata ai Forrester, io resto a piedi. Un'altra volta.
A questo punto la scarpa, mio personale oggetto feticcio, diviene tristemente una problematica perchè, al sesto kilometro consecutivo, non c'è ballerina che non inizi seriamente a diventare un ostacolo. Se la scarpa col tacco non gareggia per ovvie ragioni, il campo si restringe: non porto scarpe con i lacci. Scarpe da ginnastica? Che significa questa parola?
Nella lunga marcia per le piccole strade a gomitolo della città di V. e lungo tratte e smarrimenti a cui partecipano la fantasia delle indicazioni dei passanti e le frecce del Monopoli a fare strada, in questo grande set cinematografico montato sull'acqua come una bolla senza rumore e senza tempo, l'incanto della fascinazione è rotto solo da una costante lacerazione esistenziale: il dolore ai piedi.
La città di V. prevede allora da copione l'acquisto di calzature bizzare: le galosce con l'acqua alta e il primo paio di scarpe che capita a tiro con la bella stagione. Così coi piedi palmati e all'ultima stazione della via crucis ho afferrato, prima di cade al suolo, delle pseudo-spadrillas in tessuto da me ribattezzate le Antonello da Messina per l'effetto che fanno addosso se abinate ai leggins.
Le Antonello da Messina non solo si sposano perfettamente con lo spirito del luogo e con l'attendibilità storica, ma consentono, inoltre, spostamenti senza velleità da fachiro. E questo è sicuramente l'unico sposalizio nella città di V. che non risulti di pessimo gusto.

lunedì 16 agosto 2010

Divag/azioni. Fissare la pagina bianca

Momento massimo di ebbrezza e panico, di vertigine e sconforto, guardare intensamente negli occhi la pagina bianca corrisponde a una pratica largamente condivisa da chi, nella scrittura, si sia avventurato almeno una volta in territori al di là della mera compilazione della lista della spesa. Esperienza quest'ultima di grande genio compositivo torrenziale in cui lo slancio d'inchiostro si rivela però irreversibilmente inefficace: ogni lista della spesa che si rispetti, infatti, deve essere rigorosamente dimenticata a casa, proprio in quel punto in cui l'abbiamo scritta, proprio in quel punto che limpidamente ci ritorna in mente, come una foto, tra uno scaffale e l'altro del supermercato.Onno! Imprecazioni in offerta tre per due. Eppure la dimenticanza è necessaria affinché la lista funzioni, viceversa il fallimento è garantito con la lista in tasca. È un po' un fatto scaramantico, andrebbe approfondito. Altrove.
Tornando invece al tête-á-tête col bianco immenso della pagina, possiamo uscire allo scoperto accantonando qualsiasi sentimento di vergogna immotivata: dalle tavolette di terracotta dello scriba assiro alle tavolette i-Pad del babilonese, passando per rotoli e rotoli di pergamene e carte e cartacce, nessun umano si è potuto sottrarre al pensoso grattamento di mento. Che fare?
Non ultima la comunicazione per essemmesse in cui si deve calibrare sintesi ed efficacia per non sforare oltre i caratteri consentiti (che carattere!) arrampicandosi, dunque, in formidabili composizioni e in ancor più favolose risposte a messaggi improbabili. Il nulla spesso è la soluzione. Fingete di aver cambiato numero e passa la paura.
Qualcuno ha detto che questa generazione non pratica sufficientemente la scrittura. Al massimo questa generazione nella scrittura non arriva al sei della sufficienza, ma vedo nei gesti correnti un gran ritorno alle lettere. Non più classiche ma informatizzate, ma pur sempre lettere. Per informazioni chiedere a quello tra geroglifici e Apple.
Ad ogni modo, non è il caso di fare drammi se ci si ritrova affetti da biancopaginismo cronico. La cura, secondo gli esperti (?) sta dall'acchiappare per il bavero l'idea che si ha in mente, aggredirla da qualche parte, srotolarla in maniera scrosciante e viscerale senza buone maniere e svilupparla progressivamente andando avanti nella scrittura.
Quando componevamo i temi ( perchè nel 1901 si componeva) era fantastico comporre la bella e la brutta (quest'ultima molte volte coincideva con la compagna di banco). Era l'era del carta penna e calamaio.
In questo momento invece sto scrivendo al computer e ho la possibilità di cancellare le parole che non mi piacciono, modificare la frase velocemente, ma mi accorgo che gioco sempre in un solo campo. Non ci sono più le righe punk della brutta dove potevamo fare un po' come cazzo ci pare e quelle bon ton della bella versione Carla Bruni. Il computer permette un'altra dimensione percettiva dove tutto è insieme bella e brutta, bellissima e bruttissima senza confini. Un po' come certe pop star fichissime nei video e poi terribili senza trucco in tuta per strada col bicchierozzo di caffè americano in mano.
Le parole sono sicuramente condizionate dalle nuove modalità dei supporti. Non ti supporto più davvero.
Tuttavia, ciò che veramente mi manca dell'epoca in cui avevo un banco tutto mio è l'odore quotidiano dell'inchiostro con mani sporche di penna e callo dello scrivano (come diceva mio nonno) al seguito.
Ora non voglio piangere sull'inchiostro versato e dire che la tecnologia è malvagia. Assolutamente no. Penso solo che, come in arte le modalità espressive abbiano subito delle modifiche anche stilistiche con l'introduzione di nuovi linguaggi (foto, video, istallazioni) così anche la scrittura strutturalmente tende a cambiare se cambiano i supporti.
Potremmo scrivere tomi sull'argomento. Altrove.
Ma allora come si fa per smettere di vedere passare sul proprio schermo i cespugli di sterpaglie che rotolano nel west?
O si spegne saggiamente in computer o ci si lancia senza remore in un flusso di incoscienza: si sviscerano concetti in libertà e si torna dopo a rendere il torrente caotico vagamente comprensibile modificandone la forma.
Per intenderci: un flusso di incoscienza come questo.